Alessandro Merli Agosto 4, 2020

Economia europea contro il Covid

Nessuno può dire di preciso cosa succederà all’economia nei prossimi 12-18 mesi. Il Fondo Monetario Internazionale, nelle sue ultime previsioni, parla di “ripresa diseguale e incerta”.

Gran parte dell’incertezza è dovuta al fatto che molti fattori decisivi sono al di fuori del controllo delle autorità di politica economica e delle capacità previsive degli economisti: la durata e l’ampiezza della pandemia di Covid-19, la possibilità di una seconda ondata di contagi, l’eventuale necessità di procedere di nuovo a misure di confinamento che limitino l’attività economica, lo sviluppo e l’efficacia di un vaccino, le ripercussioni sociali e geopolitiche.

L’impatto sull’economia è stato senza precedenti e così la risposta della politica economica. La velocità e le dimensioni del declino seguito allo scoppio della crisi hanno sorpreso anche gli osservatori più attenti: la stabilizzazione che qualche primo dato congiunturale comincia a registrare è anch’essa estremamente incerta. Lo stesso Fondo Monetario che a gennaio, prima dello scoppio della pandemia, si aspettava una crescita dell’economia mondiale del 3,3%, ad aprile aveva già rivisto drasticamente la propria previsione in una contrazione del 3%. A fine giugno, altro ribasso, stavolta al 4,9%, per riflettere l’andamento peggiore del previsto della prima metà dell’anno, l’aspettativa delle necessità di distanziamento che duri più a lungo e i danni al potenziale produttivo dell’economia.

Se la fotografia del presente non è chiara, ancora meno è lo scenario prossimo futuro: gli economisti si sono sbizzarriti sulla forma della ripresa in un ipotetico grafico: se a V, come sembrano scontare i mercati finanziari che denotano un certo scollamento dall’economia, se a W, con una possibile ricaduta, se a U, con un più lungo periodo sul fondo prima del recupero, o a L, l’ipotesi peggiore, oppure in forma di radice quadrata. Ma nessuno ha un quadro chiaro.

A differenza della grave crisi globale a cavallo della fine del decennio scorso che si era diffusa dalla finanza all’economia reale, questa è una crisi che nasce fuori dall’economia, ma che poi colpisce direttamente l’economia reale e presenta il rischio potenziale di coinvolgere il sistema finanziario. E se una tipica recessione investe dapprima gli investimenti e il commercio internazionale, questa ha portato al collasso anzitutto dei consumi nei settori dei servizi in cui i contatti fra persone sono più intensi. Il lockdown e il distanziamento sociale, pur indispensabili ad arginare i contagi, hanno contribuito ad aggravare la recessione. La disparità delle conseguenze fra i diversi Paesi e settori economici è enorme, e così le divergenze nelle prospettive di ripresa.

La straordinaria portata della crisi ha stavolta prodotto una risposta di portata altrettanto straordinaria e soprattutto in tempi estremamente rapidi, in particolare in Europa, dove invece era stata lenta e spesso contradditoria dopo la crisi finanziaria globale e la successiva crisi dell’euro. Il vertice dei capi di Stato e di Governo dell’Unione europea ci ha messo quattro giorni e quattro notti fra il 17 e il 21 luglio per varare il piano NextGenerationEU, ma se si pensa che erano passati meno di cinque mesi dallo scoppio della pandemia nel Vecchio continente, si può dire che stavolta, pur nella disparità di vedute e nella necessità di conciliare gli interessi di 27 Paesi, c’è stata la consapevolezza delle dimensioni dello shock che aveva travolto l’economia: la contrazione del prodotto interno lordo nel 2020, secondo la maggior parte delle previsioni, supererà il 10% e il recupero del 2021 non basterà a compensare la perdita di reddito. L’aumento della disoccupazione e il peggioramento dei conti pubblici, con l’esplosione del debito soprattutto in alcuni Paesi come l’Italia, saranno nuove vulnerabilità. L’impatto più pesante della pandemia su aree già storicamente più deboli come il sud Europa rischiava di ampliare le divergenze fino al punto di rottura.

La prima a rispondere è stata, ancora una volta, la Banca Centrale Europea, che nella crisi dell’euro si era trovata a essere “the only game in town”, l’unica istituzione veramente attiva per contrastare la disgregazione dell’unione monetaria: già nel mese di marzo ha avviato un programma di acquisto di titoli diretto ad arginare gli effetti della pandemia, ha fornito abbondante liquidità alle banche a tassi d’interesse sotto zero perché continuassero a finanziare imprese e famiglie, ha allentato alcune regole di vigilanza sulle banche stesse. Ma in questa occasione si sono affiancati quasi da subito alla BCE uno sportello di prestiti senza condizionalità del fondo salva-Stati Esm per l’emergenza sanitaria, uno strumento per la difesa dell’occupazione e garanzie europee per le piccole e medie imprese. Il Patto di stabilità, che fissa le regole della disciplina di bilancio, è stato sospeso.

Ma l’elemento cruciale è venuto, dopo un’intesa franco-tedesca, che ha visto per la prima volta la Germania schierata con i Paesi del sud Europa, dal programma deciso dal Consiglio europeo di luglio, che prevede un fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro (di cui 390 miliardi di doni e 360 di prestiti) e un bilancio pluriennale dell’Unione per 1.074 miliardi di euro per guardare oltre l’emergenza post-Covid e trasformare l’economia, sulla base dei progetti di riforma presentati dai singoli Paesi, con un accento in particolare sulla “economia verde”. Inoltre, per la prima volta in queste dimensioni, l’Unione emetterà debito comune, un elemento che ha il potenziale di trasformare radicalmente i mercati finanziari europei.

Dietro ai numeri e dietro alle belle parole di un summit in cui hanno vinto tutti e tutti hanno qualche recriminazione, dovranno esserci naturalmente dei contenuti e gli elementi cruciali per il successo di questa iniziativa saranno i piani nazionali di riforma e la rapidità con cui si passerà dalle parole ai fatti.