[intervista] Dialogo con Benedetta Arese Lucini, General Manager, Uber Italia

Giugno 25, 2015

I Dialoghi sono momenti di confronto con personalità del mondo dell’impresa e della cultura che hanno raggiunto l’eccellenza nel proprio campo di attività, per conoscere il loro percorso professionale e le sfide che hanno affrontato.

 

Vieni definita “l’angelo biondo incubo dei tassisti”: sei anche un Ambassador di Uber in Italia, come è successo?

Sono entrata in Uber abbastanza presto: eravamo 150 persone, ma fuori dagli Usa eravamo solo una decina. Era una situazione nuova, ero in stretto contatto col CEO e partecipavo alla mission d’impresa. E oggi che siamo in 2500 persone quel rapporto, quella condivisione, continua.

A Milano abbiamo avuto problemi sin dal giorno di lancio. Spesso ero al telefono coi miei capi ed omologhi esteri per capire come gestire la situazione. Quando credi così tanto nell’idea per cui stai lavorando, è inevitabile metterci la faccia. E poi io sono determinata: quando i media hanno contribuito a trasformare la sfida rendendola mia, non ho mollato. Credo che il fatto di essere donna abbia contribuito anche alla storia mediatica di Uber, piace di più raccontare la storia di una donna di trent’anni.

 

Cos’è la rivoluzione della mobilità di cui Uber è protagonista?

Se cinque anni fa chiedevi a una persona come si poteva spostare da un posto all’altro avrebbe cominciato a sbuffare. Mezzi in ritardo, nessuna trasparenza nei prezzi e il contante come unica forma di pagamento. Anche guardando sui social, non avresti mai trovato una parola come taxi: la mobilità non era un argomento in agenda. Oggi muoversi è diventata un’esperienza, divertente, sociale e socievole. È anche qualcosa da raccontare che coinvolge il social savvy digital guy e il settantenne, un movimento che decongestiona il traffico e crea trasparenza. Uber non è la risposta a tutto, noi non togliamo lavoro ai tassisti. Al contrario, Uber cresce più velocemente dove ci sono altri servizi di car e bike sharing, siamo complementari agli altri, taxi compresi. Rispetto all’auto, si passa da una logica di possesso a una logica di accesso, proprio com’è stato per la musica. Quando questa rivoluzione avverrà, avremo cambiato una mentalità. Certo, l’asset non è da 30 ma da 20 mila euro, ma sarà una vera innovazione.

 

Come gestite le critiche mosse al vostro servizio? Come viene visto da San Francisco il dibattito italiano su Uber?

Ci sono molto critiche utili per l’evoluzione del nostro servizio. L’Italia, ad esempio, è l’unico paese al mondo in cui Uber funziona anche con le carte prepagate, per sopperire alla diffidenza nei confronti della carta di credito. Abbiamo un dialogo continuo con diverse unioni dei consumatori rispetto le nostre politiche di prezzo, ma d’altra parte Uber ha cinque anni e la divisione italiana ne ha solo due -siamo ancora in fase di startup.

Poi c’è la parte di dibattito, spesso politicizzato, che ci coinvolge. Dopo l’ultimo episodio, quello del lenzuolo sotto casa mia, da San Francisco hanno capito che il problema di regolamentazione qui veniva trasformato in un problema personale. Noi però crediamo nel mercato: sarà la domanda a dire l’ultima parola, i riscontri positivi che stiamo registrando ci fanno andare avanti.

Poi ci sono le critiche alla sicurezza, che prendiamo molto seriamente. Noi siamo una piattaforma, potremmo dedicarci al semplice matching fra utenti e non preoccuparci del resto. Noi abbiamo preso una strada diversa. Quando utilizzi o realizzi il servizio attraverso di noi, ti copriamo con un’assicurazione aggiuntiva, in certi paesi più difficili abbiamo un panic button nella app che permette di effettuare una chiamata d’emergenza, in Italia abbiamo attivato l’unico numero telefonico al mondo di Uber per aiutare i driver in caso di sinistro stradale.

Abbiamo pochissime driver donne sulla nostra piattaforma ed è un peccato. Noi puntiamo a creare 1 milione di posti di lavoro per le donne entro il 2020, anche per avvicinarci a quelle utenti che preferirebbero viaggiare da sole di notte con un’autista donna.

 

In Italia, più che i clienti, sembrano gli autisti UberPop ad essere in una posizione di rischio. Li tutelate in un qualche modo?

È vero, ed è un peccato. Se un livello di Governo se la vuole prendere con Uber, non deve accanirsi su di loro: sono persone che stanno cercando di reinventarsi, non devono pagare sulla loro pelle il prezzo del dibattito su UberPop. Come ti dicevo, solo in Italia c’è un numero per i nostri driver, attivo 24 ore su 24. Risponde una segreteria specializzata che abbiamo formato e che aiuta il driver a gestire la situazione critica –dal sinistro all’aggressione. Non è una soluzione a lungo termine, ma parliamo sempre con le Forze dell’Ordine e facciamo denuncia sia verso ignoti che persone fisiche.

Qui anche il ruolo dei Comuni è importante, anche rispetto ai taxi. Inoltre il nostro sistema di tracciamento ci permette sempre di sapere chi è stato l’ultimo utente Uber ad aver preso l’UberPop in questione, il suo numero di cellulare e il suo device. Se un utente o un driver non si comporta in maniera corretta, viene disiscritto e non gli sarà più possibile iscriversi coi suoi dati, dalla stessa macchina o dando lo stesso numero di cellulare.

 

Com’è il 2015 italiano di Uber? Prevedete di espandervi in altre città?

Il 2015 è un grande anno per Uber, grazie a Expo e al Giubileo straordinario. Crediamo che ne gioverà tutto il paese, non solo Milano e Roma. Forse ci espanderemo più a sud di dove siamo ora. Se guardi i bilanci di qualsiasi Comune italiano, la voce più pesante è il trasporto pubblico, ed è assurdo.

Potrebbero comodamente affiancarsi dei privati per gestire la mobilità, permettendo una spesa più efficace e un servizio migliore per il contribuente.

 

http://www.bbs.unibo.it/hp/wp-content/uploads/2015/04/Benedetta Arese Lucini, General Manager Uber Italia - MBALecture in BBS

 

Lo scenario più probabile per Uber, in Italia, sembra un’espansione a macchia di leopardo, tra aree dove il servizio è proibito, permesso o non preso in considerazione da parte dei legiferanti. Come pensa di muoversi l’Azienda?

La cosa più difficile in Italia è il triplice livello normativo: le leggi quadro nazionali, gli assorbimenti legislativi regionali e i reinforcement comunali. Noi oggi siamo in cinque Regioni, in ognuna abbiamo un trattamento diverso. L’espansione continuerà così, ma faccio sempre notare alle istituzioni che non è pensabile che le società estere vengano a investire in Italia quando non sanno se dalla Lombardia riusciranno ad arrivare in Veneto.

La legge della Regione Liguria non è una legge anti-Uber: implementa la normativa nazionale dicendo il servizio pubblico può essere solo un taxi o un NCC, e che gli NCC possono partire solo dalla rimessa. Noi siamo un trasporto privato tra privati e i giudici di pace abbracciano questa ratio. Solo la scorsa settimana abbiamo avuto tre giudizi positivi in merito, in tre città diverse (ndr: qui il caso di Milano e Torino). Se decidiamo di andare tutte le mattine al lavoro assieme e di darci dei soldi, nessuno direbbe che siamo un taxi abusivo. Siamo in una fase di transizione, ma alla fine ne guadagneranno tutti: chi offre nuovi servizi e anche quelli tradizionali, perché ci sarà meno traffico e i soldi non investiti in un mezzo proprio permetteranno di scegliere più di frequente il mezzo che preferiscono. Ci saranno persone che non prenderanno il taxi solo una volta l’anno.

 

Cosa consigli a chi sta studiando e sogna una carriera nell’ecosistema dell’innovazione e della social innovation?

Al Festival del Giornalismo di Perugia mi hanno chiesto cosa studiare al giorno d’oggi. La mia risposta è quello che ti piace, io assumo anche persone che non hanno mai lavorato nel digital ma che sono sveglie e imparano in fretta. A Uber diciamo spesso che proponiamo un mestiere che non esisteva: una specie di operatore digital di flotta!

Per me è importante che una persona sia imprenditrice, non avversa al rischio, che sappia prendere decisioni e valutare i propri errori. In una startup, poi, le cose cambiano molto velocemente: la chiave di tutto è la flessibilità. Credo che in tutto questo lavorare studiando sia la vera esperienza fondamentale. Anche passare un bel periodo all’estero è utile.

Last but not least, dedicarsi ai data science: sono molti a non capirlo fino in fondo, ma farà davvero la differenza domani.

 


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