“Educare alla Diversità e all’Inclusione per una nuova visione di successo aziendale”

Novembre 18, 2021

Intervista a Daniela Bolzani, Ricercatrice Senior in Economia e Gestione delle Imprese (RTD-B) all’Università di Bologna e Direttrice Didattica dell’Open Program BBS in Diversity & Inclusion. 

Lavorare in una qualsiasi organizzazione oggi comporta un’interazione costante con la diversità. Eppure le occasioni e i percorsi per acquisire le competenze necessarie a gestirla sono pochi, poco strutturati oppure offerti da realtà che non hanno una solida base accademica e di ricerca per supportare una progettualità concreta. Il nuovo Open Program in Diversity & Inclusion sviluppato da Bologna Business School vuole colmare questo gap che costituisce una nuova sfida verso l’innovazione, soprattutto per le imprese italiane. Abbiamo chiesto a Daniela Bolzani, Direttrice Didattica del Programma, di fare il punto sull’argomento e di spiegarci perché, oggi più che mai, è indispensabile acquisire una nuova consapevolezza. 

Che cosa vuol dire, nella pratica, per un’organizzazione, essere inclusiva e attenta alla diversità?

Tutte le organizzazioni devono essere consapevoli delle questioni relative a diversità e inclusione perché danno lavoro a persone diverse oppure hanno relazioni con persone diverse che lavorano in altre organizzazioni a monte o a valle nella catena della creazione del valore (es. fornitori, investitori, beneficiari, distributori, clienti, utenti finali). Quando dico che le persone sono diverse, non intendo solo caratteristiche demografiche come sesso o etnia, ma tante altre diversità anche più latenti, su cui le organizzazioni dovrebbero abituarsi a confrontarsi. Ci sono tre modi in cui le organizzazioni possono intendere le azioni di diversity and inclusion: il primo è il superamento delle discriminazioni nell’accesso alle opportunità lavorative o nella progressione di carriera – inteso dunque come pari opportunità, per esempio attraverso l’introduzione di azioni positive; il secondo è il Diversity Management – inteso come reclutamento e ritenzione di risorse umane che si riconoscono in identità diverse a causa delle loro esperienze e conoscenze umane e professionali; il terzo è l’inclusione – intesa come insieme di processi che incorporano le differenze nelle pratiche organizzative in modo che la diversità possa realizzare il suo valore – per esempio attraverso pratiche basate su ricerca, condivisione, equalità e apprendimento tra i diversi membri dell’organizzazione. 

Questi tre approcci hanno avuto un’evoluzione nel tempo. L’approccio anti-discriminazione si è affermato durante gli anni ’80 come fortemente caratterizzato da una dimensione etica, perseguita volontariamente dalle aziende, oppure imposta da regolamentazioni governative (come le “quote” per certe categorie di lavoratori/lavoratrici) basate su considerazioni di giustizia sociale o diritti civili. L’approccio Diversity Management si è andato affermando negli anni ’90 ed è tuttora utilizzato in molti contesti per enfatizzare i lati positivi della diversità per le organizzazioni: apporto di diverse skills ed expertise, nuove idee, diversi stili di lavoro che possono portare ad acquisire nuovi clienti, sviluppo di nuovi prodotti e creazione dunque di un vantaggio competitivo. Tuttavia non sono state trovate evidenze empiriche che dimostrano una chiara e univoca relazione positiva tra diversità e risultati economico-finanziari. Molte grandi aziende, inoltre, non hanno fatto progressi concreti nella costruzione di una forza lavoro veramente diversa se si pensa, per fare un esempio banale, alla presenza femminile o di persone di colore nei consigli di amministrazione e nei top management teams delle multinazionali nei paesi occidentali. Negli ultimi 15 anni si è andata invece affermando l’idea che sia più corretto dire che la diversità deve essere accompagnata da un impegno organizzativo verso l’inclusione. Per esempio alcuni autori/autrici hanno parlato di un approccio proattivo e continuativo di Managing FOR Diversity che crei una cultura organizzativa in cui le persone apprezzano e sfruttano le diversità individuali, oppure di un paradigma di Learning-and-effectiveness in cui le persone siano orientate a imparare dalle diversità piuttosto che marginalizzarle o negarle. In sintesi, non è solo necessario agire sulle diversità in quanto a “demografia organizzativa”, ma soprattutto sulla rimozione degli ostacoli alla piena partecipazione e contributo delle persone.

Questo si può concretizzare in diversi modi:

  • nella creazione di un clima di fiducia, dove le persone si sentano sicure nell’esprimersi liberamente; 
  • nel lavorare attivamente per combattere la discriminazione e la subordinazione attraverso la comprensione dei sistemi di privilegio e oppressione nella società, l’analisi di come questi siano replicati nella cultura organizzativa e l’implementazione di azioni a rimedio di queste situazioni;
  • nel favorire una maggiore diversità di stili comportamentali e di leadership, in modo da consentire l’espressione di voci diverse, che non siano sottoposte ad aspettative di conformità a stili dominanti;
  • nel rendere le diversità culturali una risorsa per l’apprendimento reciproco, generando conoscenze e connessioni nuove per e tra le persone. 

Quali sono le “differenze” che arricchiscono e come si fa a riconoscerle e valorizzarle?

Quando si parla di differenze è ovviamente più semplice pensare ad attributi visibili o “di superficie” come il sesso, la razza o l’età, ma la letteratura e la pratica ci ha insegnato a considerare altri attributi più latenti o profondi, come le differenze di valori, atteggiamenti e opinioni. In teoria, quindi, esiste un numero infinito di dimensioni della diversità. Nella pratica, si preferisce restringere l’attenzione ad alcune di queste, tra cui le più rilevanti possono essere: età, etnia/nazionalità, genere e identità di genere, disabilità, status socio-economico (o ruolo/funzione organizzativa), razza, religione e orientamento sessuale. Si deve stare tuttavia molto attenti nell’applicare tali categorizzazioni, in quanto ogni persona non può essere ricondotta solamente all’interno di una sola dimensione identitaria. L’intersezionalità delle differenze rappresenta un’importante chiave di lettura dei processi di sviluppo delle identità sociali, individuali e collettive e delle relative posizioni di potere, vantaggio e svantaggio all’interno delle relazioni sociali.  Inoltre, l’importanza di tali dimensioni va letta all’interno di un più ampio quadro storico e socio-culturale (es. la questione etnica, in particolare quella “nera”, ha storicamente assunto una rilevanza più significativa negli Stati Uniti rispetto all’Europa). La definizione delle diversità è pertanto in continua evoluzione.

Come si fa a trasformare le buone pratiche di D&I in un vantaggio competitivo per l’azienda?

Come già detto sopra, la letteratura più rigorosa tende a de-enfatizzare la relazione diretta tra diversità e risultato economico-finanziario. Da questo punto di vista, maggiori sforzi da parte della ricerca accademica sono ancora necessari e sarebbe auspicabile una maggiore collaborazione con le imprese per raccogliere questi dati. Massimizzare la diversità in azienda non è di per sé una formula magica: la diversità va gestita per potere dare frutti. Non si tratta solo di aumentare le persone sotto-rappresentate in termini numerici, ad esempio attraverso politiche di reclutamento mirate a categorie ben precise, ma anche di valutare come la diversità apportata da queste persone introduca risorse che consentono all’azienda di svolgere meglio il proprio lavoro. Dal mio punto di vista, è sbagliato continuare a chiederci se il business case della diversità e inclusione è funzionale al guadagno. Dovremmo cambiare prospettiva e chiederci quanto l’introduzione di pratiche di diversità e inclusione corrisponda a una più ampia visione di successo aziendale che riguarda l’apprendimento, l’innovazione, la creatività, la flessibilità, l’eguaglianza, la conciliazione vita privata-lavoro, e più in generale, la dignità e il rispetto umano. Questo mette a nudo la reale volontà, da parte dei leader e dei decision-makers in azienda, di contribuire alla creazione di posti di lavoro di qualità elevata, con maggiore soddisfazione individuale e di team, con pari opportunità per tutti ed equità nelle prospettive di carriera. Si tratta di mettere in discussione le strutture di potere e di privilegio esistenti a favore di un più ampio consenso e di una maggiore valorizzazione delle voci e delle esperienze. Un cambiamento che può avvenire solo se tutte le persone sono messe nelle condizioni di riflettere e discutere sui principi e sui processi di funzionamento del lavoro in azienda e sulle differenze tra persone per arrivare a comprendere che tali differenze sono arricchenti e non spaventose, da deridere, da evitare o da marginalizzare.

Facciamo un punto sulle imprese italiane. Come si comportano in questo senso e quanto e come possono ancora migliorare?

Non ci sono in Italia rilevazioni sistematiche disponibili ogni anno su questo tema. Secondo Istat e UNAR, nel 2019 circa il 21% delle imprese ha adottato almeno una misura non obbligatoria per legge con l’obiettivo di gestire e valorizzare le diversità tra i lavoratori e le lavoratrici legate a genere, età, cittadinanza, nazionalità/etnia, convinzioni religiose o disabilità. Più impegnate sono le imprese di grandi dimensioni (34%) rispetto alle più piccole (20%). Il rischio è che questo tema venga affrontato come un ambito del politicamente corretto la cui conseguenza è una reazione di fastidio da parte delle persone, che si sentono costrette a prendere una posizione su un argomento che considerano superfluo, poiché l’idea di sé introiettata è quella della massima apertura a tutti e tutte, senza pregiudizi. Nella maggior parte delle organizzazioni, in ogni caso, non si è iniziato un vero percorso di crescita su questi temi e manca la consapevolezza di quanto la comprensione e il confronto con le diversità comporti impegno cognitivo ed emotivo

Cosa si aspetta dal nuovo Open Program in Diversity & Inclusion di BBS e quanto crede sia importante la formazione nel rendere più efficace un percorso di D&I in azienda? 

L’Unione Europea ci ha già avvertito che una delle maggiori sfide per la realizzazione di azioni di diversità e inclusione nei luoghi di lavoro è la mancanza di informazione e consapevolezza delle pratiche e questioni su questo tema. Ritengo che la valenza di un open program offerto da una Business School su questi temi abbia due vantaggi fondamentali rispetto ad altri percorsi, proposti da enti di consulenza o di formazione non accademica. Il primo è la possibilità di improntare un forte legame con le teorie – per esempio di stampo manageriale, sociologico, politologico e psicologico – a cui le persone interessate a capire questo tema devono riferirsi; il secondo è la possibilità di discernere gli approcci metodologici più rigorosi rispetto al tema. Questo corso nasce dalla forte volontà di creare occasioni di riflessione, discussione e pratica diretta per i partecipanti. La parte teorica prevede la partecipazione di docenti esperti in diversi ambiti della diversità e inclusione (oltre a me, Francesco Cattani, Graziella Priulla, Nicola Palmarini) e la parte di pratica è estensiva e prende forma in testimonianze da parte di:

  • consulenti strategici e in materia di D&I (tra cui i co-direttori del corso, Gabriella Crafa di Diversity, e Marco Buemi di DNA, ma anche altre società come Bain)
  • consulenti legali (Alberto Guariso)
  • testimoni aziendali (L’Oreal, Patagonia, Airbnb, Google, Hera)
  • imprese, think-tank e associazioni impegnate nella promozione della D&I in diversi ambiti (Valore D, Mygrants, Parks, Coor Down, Avanzi)

Un altro modo molto innovativo con cui affronteremo questo tema è quello di prevedere una parte estensiva di introduzione e formazione alla progettazione, in modo che i partecipanti possano sviluppare propri progetti che potrebbero essere presentati per beneficiare dei diversi finanziamenti disponibili in questo periodo, per esempio attraverso il sostegno della Commissione Europea.

 

Se vuoi saperne di più, consulta il programma del corso.

 

Bibliografia

  • Chavez, C. I. e J. Y. Weisinger (2008). Beyond diversity training: a social infusion for cultural inclusion, Human Resource Management, 47, pp. 331–350.
  • Harrison, D. A., H. H. Price e M. P. Bell (1998). Beyond relational demography: time and theeffects of surface- and deep-level diversity on work group cohesion, Academy of Management Journal, 41, pp. 96–107.
  • ISTAT e UNAR (2020). Il diversity management per le diversità LGBT+ e le azioni per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi. ISTAT, https://www.istat.it/it/files//2020/11/Diversity-e-inclusion-management-nelle-imprese-in-Italia-2019.pdf
  • Plummer, D. L. (2003). Handbook of Diversity Management: Beyond Awareness to CompetencyBased Learning. Lanham, MD: University Press of America.
  • Roberson, Q. M. (2006). Disentangling the meanings of diversity and inclusion in organizations,Group and Organization Management, 31, pp. 213–236.
  • Thomas, D. A. e R. J. Ely (1996). Making differences matter, Harvard Business Review, 74, pp.79–90.
  • Unione Europea (2005). The business case for diversity. Good practices in the workplace.Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities.https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/57e667e2-d349-433b-b21d-1c67fd10ebb1.


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