Data Donation. I Big Data al servizio del bene pubblico

Settembre 7, 2018

Tra casi di successo, applicazioni sorprendenti e scandali, la letteratura di settore e la divulgazione nazionalpopolare hanno documentato, specialmente nell’ultimo decennio, ogni progresso e declinazione dell’oro del 21esimo secolo, i Big Data. Molta meno enfasi è invece stata riservata ad uno sparuto gruppo di aziende e organizzazioni che, pur riconoscendo l’indiscutibile valore dei dati per il business, hanno intrapreso un cammino parallelo ma contrario, concentrandosi su iniziative volte all’utilizzo dei dati per il bene sociale.

Vi è però, oggi, un rinato e crescente interesse sul bene pubblico che i dati hanno il potenziale di generare. Alcune aziende stanno di fatto sfruttando i propri asset di dati per migliorare i servizi pubblici e il processo decisionale attraverso il campo emergente della data donation (o filantropia dei dati), condividendoli in modo responsabile con ricercatori, organizzazioni senza scopo di lucro, agenzie governative e il settore pubblico. Dopo l’acqua, i rifiuti, l’elettricità, il gas, le scuole, gli ospedali e la viabilità, sono i dati il nuovo bene comune che, se garantito e sfruttato per gli interessi della comunità, potrà colmare le lacune nella conoscenza e trasformarsi in un’ampia gamma di politiche mirate ed interventi tempestivi.

 

COS’È LA DATA DONATION

Numerose iniziative fondamentali per portare soluzioni ai maggiori problemi dell’umanità muoiono sul nascere perché i dati necessari non possono essere trovati, sono danneggiati oppure manca il contesto nel quale sono stati raccolti. La data donation non ha ancora confini e pratiche univocamente stabiliti, ma esistono, tuttavia, temi comuni che riguardano la maggior parte delle definizioni. Mallory Soldner, Advanced Analytics Manager presso UPS, racconta durante il suo Ted Talk le tre principali categorie afferenti alla filantropia dei dati: donazione dei dati, donazione delle competenze e donazione delle tecnologie.

La donazione dei dati, da parte delle aziende e delle organizzazioni, si divide inoltre in due tipologie. La donazione dei dati privati, che rappresenta l’accesso a specifici set di dati, all’interno di ambienti chiusi, per fini specifici, è quella più diffusa. La donazione dei dati aperti invece prevede l’accesso a a specifici set di dati, sotto licenze aperte, all’interno di archivi pubblici o tramite API aperte, per fini generali o specifici. L’anonimizzazione, l’aggregazione e le altre forme di messa in sicurezza dei dati richiedono tempo, esperienza, cicli di calcolo e altri costi che rendono la donazione dei dati aperti molto più rara è complessa, anche se capace di produrre risultati di impatto molto più ampio grazie al grande volume di dati coinvolti.

Gli esempi, eccellenti seppur pochi, di condivisione di dati aperti da parte di organizzazioni commerciali, confermano il valore aggiunto di questa pratica. Syngenta, gruppo italiano che oggi opera a livello globale nel settore dell’Agribusiness, ha collaborato con l’Open Data Institute di Londra per rilasciare set di dati ricercabili, utilizzabili e condivisibili, contenenti le informazioni base per gli indicatori di efficienza agricola raccolti in 3.600 allevamenti in 41 paesi in Europa, Africa, America e Asia, e che rappresentano circa 200 combinazioni utili a comprendere l’interazione tra clima e colture.

 

CHI GUIDA LA DATA PHILANTHROPY

La potenzialità dei Big Data per il pubblico interesse sono state comprese e intercettate dall’ONU già nel 2009. Al culmine della crisi finanziaria globale è infatti nata l’iniziativa Global Pulse come laboratorio di ricerca e sviluppo per scoprire se e in che modo i Big Data e l’analisi in tempo reale potevano contribuire alla definizione di politiche più agili ed efficaci. I risultati sono stati più che incoraggianti, tanto che le chiacchiere sui blog e sui forum sono diventate utili per prefigurare imminenti picchi di disoccupazione, mentre il volume di tweet che menziona i prezzi del cibo funge ormai da indicatore per i tassi di inflazione. Twitter è diventato inoltre una preziosa fonte di informazioni per la salute pubblica, tracciando le più svariate conversazioni che spaziano dai terremoti alle epidemie e all’uso errato dei farmaci su prescrizione. Per questo motivo le principali istituzioni negli USA e in Australia hanno già da tempo rilasciato i loro strumenti di monitoraggio in tempo reale delle conversazioni online.

L’interesse per la data philanthropy non riguarda solo le istituzioni, ma si estende anche alle aziende, alcune delle quali hanno inserito la donazione dei dati tra le proprie attività di CSR. Un esempio eccellente è Mastercard, che ha inaugurato nel 2013 il Mastercard Center for Inclusive Growth. Il Centro opera come sussidiaria indipendente e si concentra sull’applicazione dei Big Data a una serie di problematiche sociali, mettendo inoltre in comunicazione le imprese, il governo, l’Università e le ONG con una comunità internazionale di pensatori, leader e innovatori. Tra le più importanti collaborazioni del Centro va citata la Data-Driven Justice Initiative della Presidenza di Obama. Attraverso gli insights forniti da Mastercard, è stato infatti possibile dimostrare l’impatto del crimine sui negozianti e sulle opportunità lavorative a Baltimora, facendo così leva sui dati per far avanzare la riforma sulla giustizia criminale. Analogamente, il Centro ha fornito all’ONG DataKind 100 data scientist per lavorare su progetti di impatto sociale in tutto il mondo, tra i quali uno con la Croce Rossa per ridurre le morti da incendi negli Stati Uniti. Secondo Shamina Singh, Presidente del Centro, la missione delle loro attività è proprio quella di redistribuire le risorse generate dai dati di Mastercard per favorire l’inclusione e un impatto sociale positivo.

La maggior parte dei dati viene raccolta e perciò donata da aziende e organizzazioni, ma esistono casi e temi specifici, che richiedono un’azione diretta dei singoli. OurDataHelps.org, ad esempio, riunisce data scientist ed esperti nella prevenzione del suicidio con lo scopo di identificare e tracciare schemi linguistici e comportamentali degli aspiranti suicidi nelle loro interazioni quotidiane sul web. Per raggiungere questo obiettivo, l’organizzazione incoraggia i parenti delle vittime a donare i dati pubblici e gli accessi a social e app. Vengono pertanto analizzati i profili e le interazioni sul web, ma anche i dati raccolti dai cosiddetti wearable e fitness tracker. I Big Data si stanno così rivelando dei validi alleati nella lotta alle malattie mentali e alla depressione proprio per la loro alta capacità predittiva.

 

I DATI COME BENE PUBBLICO

Dopo il terremoto di Haiti, la Columbia University e la svedese Karolinska Institute hanno lavorato insieme all’operatore mobile Digicel per capire come si stessero spostando le persone colpite dal colera, agevolando così gli aiuti umanitari. Per utilizzare il pieno potenziale dei dati è infatti necessario poter incrociare diverse fonti di informazione, dai social media alle compagnie telefoniche, passando anche dai servizi bancari e dall’e-commerce. È perciò chiaro che in questo momento il settore pubblico, per sfruttare appieno le possibilità date dai Big Data, dipende totalmente dalla benevolenza del settore privato. Per bypassare questa limitazione, sarebbe necessario riconoscere ai Big Data lo status di bene pubblico.

L’idea, per quanto interessante, va però a scontrarsi con gli interessi dei principali generatori di Big Data, ovvero i giganti della Silicon Valley, che hanno costruito i propri imperi proprio su questa stessa risorsa. Il mito secondo cui internet sarebbe uno spazio neutro, non gerarchico e decentralizzato, dove i grandi social media hanno il merito di dare democraticamente voce e spazio a tutti, è però irrimediabilmente crollato, anche nella consapevolezza dell’opinione pubblica, con lo scandalo di Cambridge Analytica.

Nel suo monopolio naturale, Facebook infatti non è guidato da un interesse pubblico ma da un modello di business incentrato sulla pubblicità, dove un singolo utente negli Stati Uniti e in Canada vale circa 97 dollari e in Europa 23. Per questo motivo, alcune settimane fa il leader del Partito Laburista del Regno Unito Jeremy Corbyn ha proposto la creazione della British Digital Corporation (BDC), un’organizzazione sorella della BBC, che dovrebbe fungere sia da think tank per guidare la politica della tecnologia digitale, sia diventare la sede di servizi no profit che possano competere con quelli a scopo di lucro come lo stesso Facebook e utilizzare i dati raccolti non per le pubblicità ma per il bene comune. La proposta di Corbyn è senza dubbio coraggiosa, ma la sfida principale che una piattaforma pubblica si troverebbe ad affrontare sarebbe proprio quella di trovare un degno sostituto agli incentivi capitalisti del profitto che guidano gli algoritmi di Facebook e ne determinano il successo.

La storia dell’umanità tende a ricordarci con una certa regolarità che il bene comune e la giustizia sociale, purtroppo, non sembrano essere argomenti di per sé sufficientemente efficaci e convincenti. Siamo però in tempo per cambiare questo corso e utilizzare i dati non solo per prendere decisioni migliori sul tipo di film che vogliamo vedere, ma sul tipo di mondo che vogliamo vedere (cit. DataKind).


 

Sebbene i campi di applicazione dei Big Data siano in parte ancora inesplorati, il loro ruolo nel plasmare la società del futuro appare invece più che chiaro. Per sfruttare appieno le potenzialità dei dati è necessario formare figure di raccordo capaci di coniugare l’attività di analisi dei data scientist con l’effettiva implementazione dei risultati. Il Master in Data Science di Bologna Business School è stato concepito proprio per coloro che sono interessati ad apprendere le più innovative metodologie di analisi e la loro applicazione alle scelte tattiche e strategiche di aziende e organizzazioni. Chi frequenta il Master in Data Science è una persona che vuole imparare a gestire il business dei Big Data, nel quale riconosce la possibilità di creare valore.



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